Solo la parola scritta o anche i “memi” sui social network? Serietà senza pietà o contaminazione (talvolta eccessiva) fra gli strumenti comunicativi, in modo da riscoprire la poesia, questa (s)conosciuta?
Il filo che lega la popolarità in Rete e la visibilità planetaria con una delle espressioni dell’uomo più antiche e potenti passa oggi per gli hashtag dedicati, quelle chiavi di ricerca precedute dal cancelletto (#), che utilizziamo su Instagram o Twitter per pubblicare i nostri versi e pensieri, spesso corredati da foto o immagini, e che contano numeri impressionanti per un genere spesso definito “difficile” o “di nicchia”: per esempio, #instapoets conta 86.282 post pubblici, ma volendo si può scegliere anche #instapoetry, #poetrycommunity o l’incoraggiante #poetryisnotdead, la poesia non è morta (un milione e rotti post, niente male!).
C’è anche #instapoesia, e tutte le declinazioni linguistiche di una sola, grande, inspiegabile passione: la poesia. Quella cosa che, per dirla alla Milo De Angelis, “…parla alla nostra sete”. O anche, come spiegava Wislawa Szymborska, che piace “Ad alcuni −cioè non a tutti./ E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza. /Senza contare le scuole, dov’è un obbligo, e i poeti stessi,/ ce ne saranno forse due su mille.”
Chissà cosa penserebbe la poetessa polacca, premio Nobel per la Letteratura nel 1996, delle nuove declinazioni pop di versi e componimenti che si fanno immagine e performance, unendo anima e corpo e rendendo visibile il risultato a milioni di persone, come mai prima nella storia dell’uomo.
La rivincita della poesia, infatti, settore editoriale di nicchia che in Italia conta oggi appena il 6% del totale dei libri pubblicati per un venduto complessivo di mezzo milione di copie (dati Nielsen per l’Associazione Italiana Editori), passa anche per il web.
La poetessa e fotografa Rupi Kaur – originaria del Punjab ma residente sin dall’infanzia in Canada – ha pubblicato la silloge poetica Milk and honey (ora edita in Italia da Tea) e ha scalato le vette della classifica del New York Times, dopo un percorso di creatività e popolarità fatto di un milione di followers su Instagram.
Fra i casi italiani più recenti quelli di Guido Catalano, che unisce testi e performance incarnando di fatto la poesia condivisa e letta quel momento quasi fosse un racconto istantaneo (#insta, appunto), il boom di copie e ristampe di “Cedi la strada agli alberi”, le poesie del poeta-paesologo Franco Arminio presentato in anteprima nazionale all’interno degli eventi del nostro festival Pazza Idea (qui il racconto dell’incontro).
La riscoperta dell’intreccio fra parola scritta e fisicità – in questo senso esibizione e impegno del poeta/poetessa che incarna i propri versi, ci mette la faccia e li ricrea ogni volta, come nel caso di Patrizia Cavalli, che dalla forma “classica” del libro arriva a una vera performance come quella a cui abbiamo assistito a Cagliari in occasione della sua rivisitazione di Shakespeare (vedi qui )- fa certo ben sperare in un qualche recupero della cultura orale anche in un’epoca di freddi e troppo veloci tecnicismi e bombardamento di contenuti e stimoli di ogni genere.
E se gli addetti ai lavori guardano con sospetto a tutti i fenomeni di poetry slam (importati in Italia dal poeta e insegnante Lello Voce nel 2001), Spoken Word (“parola parlata” appunto) e in generale alla “spettacolarizzazione” della poesia, è anche vero che per diffonderla è legittimo ogni mezzo. Anche gli strumenti della Rete, da You Tube ai social network, se utilizzati e seguiti con passione e in maniera “centrata”, possono servire: è fondamentale che il “contenitore” non sovrasti il contenuto, ma questo non sembra accadere né con i poeti di ultima generazione né tantomeno con i classici.
Ben vengano quindi i manifesti sui muri delle città, come quelli del “Movimento di emancipazione della poesia”, che improvvisamente, fra l’annuncio dei saldi e la locandina di un evento qualsiasi, ci sorprendono e talvolta indispettiscono: come osa la poesia apparire su un muro qualunque?
Conta molto il pregiudizio culturale che la poesia sia un materiale difficile e soltanto lirico, poco reale e “difficile”, che è frutto, soprattutto nel nostro Paese, di un percorso scolastico che non esplora a sufficienza il secondo Novecento e la contemporaneità, fatta di sperimentazioni e approcci anche molto diversi dai quelli dei “padri nobili” della nostra Letteratura.
La poesia, nella sua nuova forma liquida e virale, è spesso impegnata e proprio la Rete permette che l’impegno raggiunga ogni latitudine: basti pensare che il concetto chiave «Nessuno metterebbe i figli su un barcone/se il mare non fosse più sicuro della terra», dalla poesia “Home”), versi scritti dalla 27enne performer somala Warsan Shire, sono diventati virali su Twitter dopo essere state utilizzati dagli attivisti sui cartelloni contro il Muslim Ban in America, lo scorso gennaio.
La poesia, dunque, è una delle espressioni più efficaci del presente, uno strumento multiforme che ci permette di osservare anche i mutamenti in atto per poterli leggere meglio, e in questo sta la sua utilità anche pratica (la risposta alla “sete”, appunto).
Sull’annosa e forse già superata questione della “veridicità” o “verità” (e di conseguenza “post verità”) di tutto quello che accade (che cioè facciamo accadere) sui social network, la poesia può essere ancora una volta perfettamente a suo agio, perché, come ammoniva Fernando Pessoa in uno dei suoi componimenti più celebri, Il poeta è un fingitore/ finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente.